Elementare Wittgenstein!


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Myrddin
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MessaggioInviato: Gio Mar 08, 2007 10:13 pm    Oggetto: Elementare Wittgenstein!   

Elementare Wittgenstein!, è un interessantissimo libro sulla filosofia del libro giallo scritta da Roberto Giovannoli con prefazione di Umberto Eco (372 pagine, 29 euro, Medusa Editore).

Vi propongo l'introduzione di Umberto Eco:
UMBERTO ECO

Allievo di Eco, Renato Giovannoli, di professione bibliotecario, si occupa di semiotica della cultura. Il suo lavoro si articola in tre parti.
La prima, «La catena e il filo. Logica dell’indagine», muove da Holmes («Le “deduzioni” di Sherlock Holmes sono abduzioni?») per approdare a Wittgenstein («Wittgenstein e la massima pragmatica»).
La seconda sezione, «L’impronta e la maschera. Ontologia degli indizi», va dagli indizi artefatti alle «prove morali», dagli indizi «vaghi» al «gotico razionalista».
La terza, «La scacchiera e il labirinto. Geometria del mistero», giunge a visitare «il labirinto nel poliziesco moderno» (dai labirinti cinesi di van Gulik a «labirinto e crittogramma» nel «Nome della rosa», a «un labirinto-crittogramma nella «Città di vetro» di Paul Auster).

Renato Giovannoli è autore (tra l’altro, ma a parer mio anzitutto) di uno dei libri «scientifici» più appassionanti, La scienza della fantascienza. Chi ha letto questo libro sa che non è una storia della fantascienza, né una riflessione sull’attendibilità scientifica della fantascienza, bensì un libro sulle principali idee finzionalmente scientifiche che circolano nei principali romanzi e racconti di fantascienza. Queste idee dimostrano una insospettabile coerenza, come se costituissero un sistema, pari per omogeneità e consequenzialità a quello della scienza.

L’indagine di Giovannoli è stata possibile (e appare plausibile, nella sua rigorosa trattazione delle leggi della robotica, della natura degli alieni e dei mutanti, dell’iperspazio e della quarta dimensione, dei viaggi nel tempo e dei paradossi temporali, degli universi paralleli e via dicendo) per almeno tre ragioni: la prima, e la più banale, è che gli autori di fantascienza si leggevano e si leggono tra loro, e quindi alcuni temi migrano da storia a storia, e vengono ripresi e approfonditi, così che si è creato come un sistema parallelo a quello della scienza ufficiale; la seconda è che i romanzieri di fantascienza avevano sottocchio i problemi posti dalla scienza, e sviluppavano le loro finzioni non in opposizione alle soluzioni della scienza, ma semplicemente traendone le conseguenze più estreme, seguendo rigorosamente non tanto una logica dell’inverosimile quanto una logica dell’ipotetico; e la terza è che alcune delle idee ventilate dalla fantascienza (e basterebbe partire dai padri fondatori, o almeno da Verne e dalle meraviglie del futuro descritte da Salgari o Robida) di fatto sono poi diventate realtà, come i viaggi spaziali, o le applicazioni dell’intelligenza artificiale, tal che non si può prescindere dal sospetto che per tanti aspetti la scienza della fantascienza avesse non solo anticipato ma in un certo qual modo ispirato la scienza della scienza.

Coerentemente col suo vecchio libro, Giovannoli avrebbe dovuto intitolare quest’ultimo L’epistemologia dell’epistemologia poliziesca, o La logica dell’indagine fittizia, perché di fatto qui egli applica all’arcipelago della letteratura poliziesca lo stesso metodo che aveva applicato alla fantascienza: assume cioè che i detectives della narrativa abbiano ideato e applicato i loro metodi di indagine in maniera affine ai filosofi e agli scienziati, per cui di questi metodi va alla ricerca ricostruendoli come procedimenti coerenti e suscettibili d’indagine logica. Salvo che c’è una differenza. I narratori di fantascienza presumevano che potessero darsi (un giorno o in un universo parallelo) leggi affini a quelle che regolano il nostro universo, ma con alcune interessanti variazioni o estensioni, e pertanto resta legittimo il sospetto che quello che avviene in un romanzo di fantascienza potrebbe non accadere mai nella realtà, e che le leggi della scienza fantascientifica non possano mai coincidere con quelle della scienza.

Invece, per quanto riguarda la narrativa poliziesca, il detective ragiona o si comporta come di solito ci comportiamo noi, o i più acuti tra noi, nella vita reale, e certamente come si sono comportati e si comportano filosofi o scienziati. Altrimenti il romanzo poliziesco, se si riferisse non al nostro universo ma a un Altro, non sarebbe interessante come di fatto è. Dunque si potrebbe concluderne che, mentre i narratori di fantascienza fanno finta di essere scienziati di domani, i narratori polizieschi descrivono il modo in cui si è pensato ieri e si pensa oggi. La differenza non è da poco.

Se La scienza della fantascienza poteva essere il manuale un poco provocatorio di una scienza possibile, questo libro rappresenta una indagine filosofica sul modo in cui realmente si pensa. A questo titolo ci si può davvero chiedere, come fa in fondo l’autore, se esso rappresenti una filosofia del racconto poliziesco (il che secondo me sarebbe riduttivo) o un manuale di filosofia che prende le mosse, anziché da esempi tratti dalla vita reale, da esempi di ragionamento tratti dalla finzione. E pertanto non so se raccomandarlo a chi vuole capire il romanzo poliziesco o a chi vuole capire la filosofia, e per prudenza lo raccomando a entrambi.

Uno degli aspetti più appassionanti del libro non è tanto la dimostrazione che alcuni autori di polizieschi erano al corrente di problemi filosofici e scientifici (si vedano per esempio gli appassionanti paragrafi 153-156 sui rapporti tra Dashiell Hammett e la teoria della relatività, la topologia e altre questioni) – perché questo si poteva agilmente immaginare, almeno per alcuni autori che mostrano una notevole consapevolezza dei metodi di ragionamento, e altrimenti non si spiegherebbe perché Holmes poteva parlare di deduzione.

L’aspetto più stupefacente è che alcuni pensatori non avrebbero pensato (forse) come hanno pensato, se non avessero letto romanzi polizieschi, e mi riferisco alle pagine che giustificano il titolo del libro, in cui si vede quanto partito il secondo Wittgenstein avesse tratto dalla lettura degli hard boiled novels. Siamo onesti, probabilmente prima viene la filosofia e poi il poliziesco, dato che non riuscirei a trovare fonti «gialle» al pensiero di Aristotele, Ockham, Cartesio o Kant (ma chissà... in fondo anche Edipo re è la storia, prima, della decrittazione di un enigma e, poi, di una indagine poliziesca).

Ma certamente, a partire come minimo dai racconti di spettri della gothic novel e da Sue o da Poe, il racconto poliziesco ha forse influenzato più di quanto sappiamo i pensatori accademici – i quali non tutti avevano l’onestà o la spregiudicatezza intellettuale di Wittgenstein, e io so di miei maestri d’università, dall’insegnamento rigoroso e pensoso, che la sera a letto o durante le vacanze leggevano con diletto e profitto i Gialli Mondadori (ma non me lo dicevano). Se proprio qualcuno non avesse né voglia né tempo di leggere questo libro, potrei indegnamente sintetizzarlo (a che servono altrimenti le prefazioni?) dicendo che il passaggio tra il poliziesco di detection a quello hard boiled, ovvero il poliziesco di azione, è affine al passaggio dal Wittgenstein del Tractatus a quello delle Philosophische Untersuchungen (che in inglese si traduce non a caso come Philosophical Investigations) e, siccome è difficile pensare che bestioni maccartisti tutti stupore e ferocia come Spillane avessero letto Wittgenstein, è piuttosto pensabile (e documentato) che Wittgenstein avesse letto i maestri dello hard boiled novel. Il salto epistemologico di cui parlo è quello da un paradigma della deduzione (che prevede un mondo ordinato, una Grande Catena dell’Essere spiegabile in termini di rapporti quasi obbligati tra cause ed effetti e retta da una sorta di armonia prestabilita per cui l’ordine e la connessione delle idee nella mente del detective rispecchia l’ordine e la connessione vigente nella realtà) a un paradigma che in modo abbastanza geniale Giovannoli ascrive all’eredità del pragmatismo, in cui il detective, più che risalire alle cause, provoca effetti.

Ma i rapporti tra pensiero filosofico e pensiero poliziesco non si arrestano qui. Mi piacerebbe dilungarmi sui paragrafi in cui si discutono i rapporti possibili tra Woolrich, Agatha Christie e Heidegger. Certamente Giovannoli non ardisce individuare influenze documentabili tra Dieci piccoli indiani, che è del 1939, ed Essere e tempo, che è del 1927, e (direi io) per due buone ragioni, una che una dame inglese non avrebbe ritenuto chic leggere un rozzo pensatore tedesco, e l’altra che Heidegger (anche se cronologicamente avesse potuto) non avrebbe mai letto un romanzo poliziesco inglese visto che per lui si poteva filosofare solo in greco e in tedesco. Ma il colpo di scena per cui si riconduce l’idea di una presenza costante della morte e del suo essere-per-essa a una tradizione medievale, certamente (se fa onore ad Agatha) getta un’ombra di déjà-vu su Martin. Eh, le trame dello Zeitgeist! Io avevo scritto tempo fa che un libro poliziesco è un modello ridotto della ricerca metafisica, visto che entrambi si risolvono nella domanda «Chi ha fatto questo?» – che è poi la versione filosofica del whodunit.

Giovannoli mi ricorda che un problema analogo si era posto Chesterton definendo il racconto poliziesco un simbolo di misteri più alti, e che Deleuze aveva detto che un libro di filosofia dovrebbe essere una specie di poliziesco. Che cosa sono le cinque vie per dimostrare l’esistenza di Dio in San Tommaso se non un modello d’indagine poliziesca? E per lo hard boiled? Basta Pascal con la sua scommessa, via, proviamo a scompigliare le carte, e poi vedremo che succede.

Ultima annotazione per chi non ritenesse utile leggere questo libro: andatevi a vedere le pagine su Hammett e lo spazio in forma di cavatappi. (fonte: Tuttolibri, sabato 17 febbraio)
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